E’ inesorabilmente scattato il conto alla rovescia per il rientro in Italia, sarei bugiardo se non ammettessi che vorrei restare in queste magiche terre per un altro mese, come minimo. Perché ogni volta che torno è un po’ come essere a casa; i colori, gli aromi aspri delle rocce rosse, i paesaggi infiniti, le highway che sembrano puntare dritte in cielo. Devo però essere sincero, il viaggio è andato meglio delle aspettative; e queste, credetemi, erano veramente alte. A bilanciare la mia malinconia per gli States c’è il viso della mia ragazza, per un verso felice di lasciarsi dietro paesaggi non proprio “maldiviani” come sognerebbe; ma in fondo lo so che appena rientrata a casa si diletterà nel raccontare in quali meravigliosi scenari si è calata. Mentre vago con la mente, provo a divincolarmi tra le vie di Santa Fe, percorrendo per un piccolo tratto anche una tratta della “Old Route 66”; pochi minuti di strada e lasciamo anche questa città, ormai non si contano più le miglia percorse. Ho ancora negli occhi la nostra Ford Explorer color rosso fuoco che splendeva nel parcheggio del rent car la prima notte a Phoenix; ora ha la parvenza di una betoniera; la polvere rossa, quasi come un trofeo di guerra, è riuscita ad insinuarsi in ogni piccola intercapedine; e io ne vado molto fiero, come un bambino che è appena uscito da una giornata intera al luna park.
Tra poche decina di miglia ci immetteremo sulla Highway 40 che taglia da est a ovest il sud degli Stati Uniti, ma soprattutto che, per la tratta che compete al New Mexico, Arizona e California, sostituisce in buona parte la “mother road”, la leggendaria Route 66. Dormiremo ad Holbrook, ma in serata visiteremo il Painted Desert e il Petrified Forest National Park. Una giornata altamente tranquilla, da considerare come semplice trasferimento. E’ qui che una mente malata per l’America come la mia riesce a riempire anche la mattinata con una fuga, fuori programma fino a ieri sera, ad un parco di recente creazione: il Kasha-Katuwe Tent Rock National Monument. A dire il vero avevo già letto qualcosa di questo parco sul libro di Martres; poche indicazioni, un paio di foto, ma il fascino di queste guglie di roccia era già grande. Per fortuna ieri sera ho trovato, su uno di quei libri pubblicitari in dotazione alla camera, una piccola mappa che illustrava il Cochiti Pueblo e nella stessa area c’era un indicazione, vaga, a questo monumento nazionale. In pochi minuti di auto giungiamo alla “exit 264”, l’unica vera istruzione per arrivarci; poi ci lasciamo alle spalle la trafficata highway e imbocchiamo una bellissima strada che corre in mezzo al nulla. Il navigatore è quasi inutile, non avendo le coordinate di arrivo; tutto sembra magico e il mio consiglio è di preferire, ove possibile, le “backroads” invece che le impersonali highway.
La strada “22” che abbiamo imboccato sembra immacolata; il colore nero del catrame, nessuna buca, neppure un automobile in senso opposto. In men che non si dica superiamo il Rio Grande e svoltiamo subito in direzione del pueblo; viaggiamo alla cieca, senza neppure la possibilità di fermarci e chiedere indicazioni, tanto non c’è anima viva. Raggiungiamo Cochiti, da qui in poi si va a naso; quanto mi piacciono queste situazioni. Un piccolo cartello pericolante indica la presenza del parco poco più avanti, siamo arrivati allora. Vediamo un piccolo cabinotto del ranger, peccato sia desolatamente abbandonato – o ancor meglio, mai utilizzato. La strada ora è un mix di ghiaia e sterrato, ma nulla di preoccupante: la si può percorrere anche con una normale berlina, facendo attenzione a qualche buca bella profonda. Sono ormai dieci minuti che alziamo una scia di polvere bianca, ma questo parco dov’è? All’improvviso incrociamo dei camion per la manutenzione delle strade, e subito dietro loro il parcheggio del National Monument: siamo a destinazione. Tutto è un enorme cantiere, stanno asfaltando una piccola zona pic-nic, anche se non capisco chi potrebbe mai fermarsi qui a mangiare. Mi piacciono gli americani perché se fanno una cosa, la fanno; e quando partono non lesinano risorse. Un parcheggio per una decina di veicoli è presa d’assalto da un’orda di operai, ruspe e camion; sembra quasi un dispiegamento militare invece che un normale e piccolo cantiere: li adoro.
Noto con piacere che ci sono altre, poche, auto; in fondo non sono l’unico pazzo che si lancia in questo parco nella mattinata e con questo sole realmente messicano. Il cambio di clima da Tent Rock a Santa Fe, nonostante mezzora di viaggio, è impressionate; sono le dieci del mattino ma l’aria è infuocata e di nuvole non se ne vedono da nessuna parte. Non siamo proprio attrezzati per l’ennesimo trail, ma in pochi minuti ci mettiamo in marcia. Sopra di noi un’alta collina di roccia evidenzia qualche piccolo e stranissimo hoodoo; piccole colonne con dei cappelli di roccia, bellissime. Prendo una piccola mappa del parco; il trail non è così breve come credevo, visto che sono circa tre km a tratta. Iniziamo il percorso in mezzo ad un giardino di piante grasse e cespugli bassi; ma la cosa più inquietante è il continuo ripetersi di cartelli che avvertono della massiccia presenza di “rattle snake”. Pensa che fortuna sarebbe farsi mordere negli ultimi giorni di viaggio, dopo aver scampato questo rischio in aree davvero dimenticate da Dio. La Babi, come da previsione, al terzo cartello con un bel disegno di un “bull snake” decide che è meglio se mi aspetta in auto; io, manco dirlo, decido di proseguire. Non sono una persona di montagna, quindi le poche escursioni che ho affrontato le ho sempre fatte in compagnia; ma oggi mi accorgo di come camminare da soli attribuisca una magia tutta sua al luogo. Il vero trail comincia dopo qualche centinaio di metri, con una serie di stretti slot canyon; scivolare lungo queste strette pareti, fredde come il ghiaccio e lisce come il vetro, è emozionante. Probabilmente questo doveva essere il letto di un fiume, ora tragicamente asciutto; sopra di me si possono notare tronchi incastrati tra le pareti del canyon. Immagino cosa deve essere trovarsi qui nel bel mezzo di un ipotetico temporale o flash flood; la forza dell’acqua quando s’incanala è di una violenza inaudita.
La camminata è semplice, permettendomi di appostarmi con calma e rubare qualche scorcio niente male; intanto cominciano a prendere forma attorno a me le classiche sagome delle rocce che ho visto sulla guida. A metà strada tra dei coni e dei Trulli pugliesi, su entrambi i lati del trail si incontrano queste curiose e alte formazioni rocciose; il contrasto con il blu cobalto del cielo è qualcosa di unico. Evidentemente ero troppo ottimista, il percorso in piano, di circa un paio di km, è finito; inizia la salita verso un vista point. Ma prima bisogna circumnavigare una collina e l’unico sentiero ammesso è fatto di ripidi scalini ricavati da rocce e tronchi di legno. Nulla di che, ma occorre comunque essere allenati visto che si sale parecchio e i gradini sono molto alti. Forse è la prima volta che ho il fiatone; o forse è perché devo fare in fretta e corro letteralmente su queste fragili e irte rampe naturali, visto che ho promesso alla morosa che sarei tornato molto presto. Mano a mano che si sale si guadagnano visuali davvero notevoli e inusuali su questo parco; grappoli di “tent rocks” si possono ammirare un po’ ovunque. Lungo il tragitto incontro altri turisti che, beati loro, se la prendono con molta calma riposandosi a ogni piccolo pianerottolo all’ombra. Il sole picchia davvero forte adesso; le pareti di roccia chiara e liscia poi ne amplificano la luminosità. In tutto il viaggio solo a “the wave” avevo riscontrato temperature simili; in alcuni tratti dove il canyon è molto angusto, l’aria s’infiamma da quanto è calda. Per la cronaca non ho visto neppure un rattle snake lungo il trail; senza dubbio ce ne sono, ma non hanno tutti i torti se durante le ore più torride se ne stanno un po’ al coperto. Giunto in vetta lo spettacolo che si apre è veramente suggestivo; sullo sfondo si vedono le montagne di Santa Fe, o quanto meno credo siano quelle, mentre in direzione opposta c’è l’Arizona.
A proposito di Arizona, è il caso di muovermi a tornare verso l’auto visto che ho ancora un totale di miglia da macinare e vorrei godermi il tramonto tra le dune di Blue Mesa nella foresta pietrificata o tra le badlands del deserto pintado. Il trail di ritorno è anche un film a ritroso di tutto il viaggio, visto che mancano pochissime notti alla fine; mi accorgo di quanto abbiamo corso, ma soprattutto di quali spettacoli naturali siamo stati testimonicommossi. Non so se il mal d’America sia una patologia; se lo fosse credo di essere allo stadio terminale. Nonostante i tantissimi viaggi negli Stati Uniti, queste terre fatte di profumi e colori riescono ancora a trasmettermi tali emozioni che anche a distanza di anni non tendono a sfumare; se questa non è magia non sapreiallora come chiamarla.
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giotto |
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