Svegliarsi in una ex stalla, arredata ovviamente a camera da letto, devo dire che come esperienza mi mancava. Una serata bucolica, tra zuppe di aragosta, agnello al vapore e cavalli che vagano liberi per tutta la proprietà, questa è l’Islanda. Però uscire dalla stanza e come paesaggio avere ghiacciai, pascoli a perdita d’occhio e il mare illuminato dal Sole basso, fa dimenticare la durezza di un viaggio in questa terra. Colazione stile ‘ultima cena’ e via in auto, primo stop Hofn. La giornata è a dir poco splendida, con le nuvole di ieri che magicamente sembrano svanite; anche la temperatura è gradevole e posso finalmente togliermi il pile. Il paesaggio circostante alla piccola cittadina è molto dolce, con delle splendide lagune dove i ghiacciai si specchiano; la durezza della terra dei vulcani attorno ad Hella e Skogar è notevolmente differente da qui. La piccola cittadina sembra uscita dalle favole che si raccontano ai fanciulli, dove tutti sono — o sembrano — felici, dove i bambini giocano in grandi prati verdi. Se non fosse che si trova all’estremità orientale dell’Islanda, direi che sarebbe una cittadina ideale dove vivere. Il rigore e pulizia dei centri abitati è sorprendente, spesso mi chiedo dove sia il trucco. Ci fermiamo a fare qualche scatto sulla laguna, mentre mi cade l’occhio su un piccolo asilo; un minuscolo steccato separa una dozzina di piccolissimi vikinghi intenti a smontare e rimontare l’edificio, tutti rigorosamente in maniche corte. Bellissimi.
Riprendiamo la nostra marcia percorrendo sempre la regione dell’Austurland, direzione lo sperduto e solitario nord est. Svalichiamo un paio di lunghi fiordi che ora si allungano in mare aperto e percorriamo alcune gallerie, molto diffuse in queste terre. Appena ci lasciamo alle spalle Hofn facciamo l’incontro con uno degli angoli — che si rivelerà — più belli d’Islanda, Lonsvik. Un’ampia vallata verde fa da contraltare ad una grande spiaggia nera che sembra incorniciare il paesaggio. Sullo sfondo un’alta scogliera con un imponente faraglione su cui il mare sembra avere un conto aperto da secoli. Scendiamo dalla strada sotto montana fino a raggiungere la battigia, voglio ammirare nella sua interezza questo dipinto naturale. Il mare si scaglia con una foga inaudita sulla costa, ricordo una forza simile sulla Skeleton Coast della Namibia; dalla parte opposta piccole spiagge nere sono raccolte in mezzo a grandi bastioni di roccia che quotidianamente sfidano l’impeto marino. E’ l’equilibrio della natura, dove le energie opposte si bilanciano da sempre; ovviamente finché l’uomo non riuscirà anche qui a metterci mano e rovinare tutto come da copione. Proviamo ad arrampicarci sulla scogliera più protesa in mare, chissà che incontri da vicino qualche pulcinella; certo che con tutto questo muschio su ogni roccia diventa un evento quando non si scivola. Decidiamo di pennellare in auto un altro fiordo, ma il Berufjordhur lo percorriamo per intero in modo da dirigerci verso la meta della sera, la cittadina di Egilsstadir. Il Berufjordhur è davvero imponente con le sue pareti che km dopo km sembrano sommergerci; un paio di tornanti nuovamente sullo sterrato e alla vista di una cascata seminascosta decidiamo di fermarci nelle sue vicinanze per abbozzare un pranzo improvvisato. Un paio di sandwich con salmone e qualche galletta di frumento, in pratica sto provando a rivoluzionare la cucina islandese abolendone burro e creme varie. La piccola cascata che si lascia cadere davanti a noi è una di quelle gemme che solo sfuggendo alla ring road si può scoprire. Sostiamo per quasi un’ora, giusto il tempo di stressare cavalletto e obiettivi, ma mi accorgo che su questa carrettiera non passa nessuno. E’ evidente come una volta superata la laguna di Jokulsarlon di turisti se ne vedano molto pochi; i tour proposti solitamente prevedono lunghe escursioni da Reykjavik, ma comunque la sera nuovamente il rientro nella capitale. Ci godiamo il lato migliore della solitudine, cioè il silenzio assoluto: nessun campo telefonico e neppure l’unica stazione radio che bene o male ci teneva i timpani attivi.
Risaliamo lungo la strada, che nel frattempo è sempre più sterrata e a tratti invasa da rigagnoli di qualche torrente che corre a fianco. Onestamente non so proprio dove ci troviamo, ma non ci sono deviazioni neppure per far marcia indietro, quindi si va avanti per forza. Dopo una mezz’ora di viaggio e dopo aver stappato le orecchie più volte a causa dell’altitudine, mi accorgo che se vedessi dei troil o degli hobbit lungo la carreggiata non mi stupirei di nulla. La nebbia avvolge a tratti l’highland su cui ci siamo arrampicati con l’auto, mentre il sole ogni tanto illumina porzioni di campo rendendo i verdi e i gialli dei campi quasi accecanti. Gli unici rumori sono quello dell’acqua che scorre ovunque; mi fermo alla meglio e scendendo dall’auto cerco di capire se sono ancora sul pianeta Terra, ma l’unica cosa che sento è il meraviglioso profumo dell’aria. Un fragranza vera, umida al punto giusto e con una punta di aroma di muschio; non esagero. Già rimpiango di non essere partito con una Jeep e soprattutto di non aver destinato a questo viaggio più di due settimane, perché l’interno è totalmente inesplorato, selvaggio. L’Islanda rappresenta per certi versi e in termini paesaggistici e naturalistici l’Africa d’Europa, un luogo a pochissime ore da noi che solo la mia ignoranza mi ha fatto evitare fino ad ora. Il nostro esilio nel mondo fantasy termina con l’incontro di un bivio recante l’indicazione della nostra meta finale. Anche l’asfalto riprende possesso sulla nuda terra e se non sbaglio mi ritrovo sulla ring road. In poco raggiungiamo il lungo e stretto lago di Lagarfljot dove si narra dimori nientemeno che un lontano parente del famoso mostro di Loch Ness. Mi fermo sul bordo del lago, ma oltre ad una fitta nebbia non vedo nulla. Questa zona è famosa per i boschi, i più grandi di tutta Islanda. Ovviamente scelgo il lato più lungo e panoramico per raggiungere Egilsstadir, cioè quello che abbraccia il versante sud e poi quello occidentale. Ultimo stop, credo notevole da quello che ho letto, la cascata di Hengifoss. La salita iniziale è ripida, ma comunque fattibilissima. Il percorso è fatto di un paio di muri e di altrettante piane dove il fiume scorre; già a metà strada, incastonata in violente gole di nero basalto la piccola Litlanesfoss dà un assaggio della bellezza del posto.
La camminata non è difficile, ma ci avviciniamo sempre più al nord e le brezze che ci danno il benvenuto non sono proprio caraibiche; a questo bisogna aggiungere un terreno sempre molto umido che fa sembrare gli scarponi zavorrati al suolo. Ma non abbiamo fretta, tanto fino a tarda sera la luce è ben presente. Affrontiamo un paio di guadi iper scivolosi e stranamente ci accorgiamo di non essere l’unica coppia a spasso nel tempo. Finalmente superiamo una collina che cela la piana finale, dove cioè in lontananza si vede il salto vertiginoso di Hengifoss. Sembra, dalle nuvole basse, che l’acqua cada direttamente dal cielo, ma il fragore invece provenga dal sottosuolo. Ci addentriamo non senza qualche difficoltà, il letto del fiume è costellato di macigni viscidi difficili da superare. La portata del corso d’acqua, ogni anno dopo il disgelo, deve imprimere parecchia forza a tutto ciò che incontra sul suo cammino. Riusciamo ad avvicinarci abbastanza nella gola, dove le pareti sembrano pagine aperte sulla storia geologica di questo luogo. Parliamo a fatica, tanto è il rumore della cascata; sembra di essere in un hangar mentre un aereo accende i motori. La natura riesce sempre a sorprendermi, tanta è la sua maestosità. Componiamo un paio di teepees, giusto per ricordo e facciamo marcia indietro. La discesa è sempre più agevole nelle motivazioni, ma non sempre quando la sottile nebbiolina ha fornito quella patina sdrucciolevole allo stretto percorso fatto d’erba e ciottoli. In pochi minuti raggiungiamo la piccola cittadina di Egilsstadir, che apprendo sia un centro industriale molto importante dello sperduto est islandese. Un ponte sul lago separa due paesi gemelli e ci metto un po’ a capire in quale dei due alloggi. La nostra camera è all’interno di un caratteristico maniero che si affaccia sul lago; l’interno è d’autore, con i pavimenti fatti di grandi plance di legno antico. Ogni passo è uno scricchiolio, il che rompe la monotonia del paesino. La sera ci lanciamo in un bar ristorante, a dire il vero è l’unico che troviamo degno di nota a parte una specie di autogrill in pieno centro. L’interno è grazioso, ma il cibo è superlativo. Zuppa di aragosta e salmone grigliato, delizioso.
Ci voleva proprio dopo una giornata costellata da scarpinate e da lunghi periodi al volante; non siamo soliti fermarci ad ogni ora per mangiare, ma alla sera un locale degno di nota ci piace visitarlo. La notte scivola via pacifica, cullati dal silenzio della nebbia sul lago e dal profumo del legno originale della camera. La colazione invece si rivela l’unica nota negativa del soggiorno, dove i camerieri più che inservienti sembrano degli ispettori attenti a vigilare che nessuno sottragga cibo per riusarlo durante le escursioni; come se girassi con le fette biscottate con sopra la marmellata per tutta Islanda. Contenti loro. Meglio pensare a cose più importanti, oggi unico stop, ma a leggere sulle condizioni della strada sarà molto impegnativo. Poco più di un’oretta per raggiungere il piccolo centro di Grimsstadir, adagiato sulla ‘ring road’ e da li ci buttiamo verso nord sulla 864. Una strada che sapevo fosse acciottolata, ma non credevo si presentasse piena di crateri; avanziamo con la nostra piccola utilitaria a velocità ridotta, questa volta ritengo che canterò un requiem per i semiassi. Andare a passo d’uomo è snervante, anche perché il panorama è inesistente, oltre a qualche sporadico banco di nebbia che mi permette di centrare meglio le buche. Per fortuna il traffico è abbastanza sostenuto, nel senso che siamo una colonna di cinque vetture che fa a gara a chi va più piano e zigzaga meno. Ma con prudenza arriviamo al piccolo parcheggio delle cascate; sopra di noi si levano nuvole di acqua polverizzata mentre un frastuono incredibile mi fa quasi dimenticare la vettura accesa. Come per Gullfoss, per raggiungere il salto principale della cascata bisogna scendere in quello che si configura come un piccolo Grand Canyon; dalla strada era impossibile vedere qualcosa, trovandoci in pratica in vetta alla mesa. Il fiume glaciale Jokulsa scorre con le sue acque scure; il suo corso è prepotente, rimbalzando da una sponda all’altra come un mostro mitologico che cerca di liberarsi. La cascata è qualcosa di prodigioso, in tutta la sua violenza; una grande spaccatura asimmetrica, causata da una violenta eruzione vulcanica, fa si che l’acqua continui nella caduta a scavare le pareti circostanti.
Mi avvicino al bordo, fatto di grandi massi di pietra lavica estremamente scivolosi. Il fragore e la potenza fanno tremare tutto, sembra che da un momento all’ altro saremo tutti inghiottiti. L’acqua è paurosamente scura, infondendo ulteriore angoscia allo spettacolo. E’ la cascata con la portata più alta d’Europa, non oso mettere in dubbio un simile dato. Sullo sfondo la piccola cascata di Selfoss che introduce Dettifoss. Provo ad addentrarmi lungo la sponda del fiume, ma la posizione migliore è un piccolo pianerottolo sospeso proprio sopra al salto; ovviamente parlo di luoghi naturali, qui di cemento nemmeno l’ombra, come dire che dove ho scattato le foto forse l’anno prossimo non ci sarà più nulla. La natura in Islanda è talmente violenta che muta la fisionomia del paesaggio ad una velocità impressionante. L’altra sponda offre viste ancora più magnifiche, ma per raggiungerla credo debba risalire tuta la 864 fino al visitor center e poi ridiscendere dalla parte opposta; ma la mappa indica come ‘F’ l’altro ramo, quindi preclusa alla mia vettura. Riprendo la strada verso nord, perché leggendo qua e là mi ero annotato numerosi punti di stop degni di nota lungo il parco. E infatti dopo poco, immersi tra colline rosse di ferro, ammiriamo la terza cascata del Parco Nazionale di Jokulsargljufur, quella di Hafragilsfoss. Provo ad arrampicarmi su una rupe; lo strapiombo sotto di me è notevole, ma il paesaggio è incantevole in tutta la sua drammaticità. Piccole piscine di acqua blu cobalto, non ne capisco il perché, sembrano macchie in mezzo al fiume scuro come la pece. Tutto intorno piccole colline vulcaniche maculate con le tonalità del rosso e del marrone, mentre il muschio verde acceso illumina il paesaggio; mi sto muovendo dentro un grande dipinto naturale. La strada verso l’uscita nord del parco peggiora metro dopo metro e mi accorgo di essere rimasto solo io a guidare; non mi stupirei di trovarmi da un momento all’altro sul ciglio di un crepaccio. Ma un po’ di pazienza, e soprattutto esperienza, ed eccoci ad Asbyrgi dove è ubicato il grande e deserto visitor center. Mi fermo a chiedere informazioni sul lato occidentale del parco, ricco di luoghi suggestivi, ma purtroppo difficilmente raggiungibili con la mia vettura. Scopro che un autobus attrezzato tutte le mattine fa la spola dal visitor center fino all’uscita sud, ma ormai il pomeriggio sta lasciando il campo alla sera e quindi mi rassegno e decido di far rotta verso il grande comprensorio del lago Myvatn; sarà per la prossima volta.
Per evitare di rifare il percorso di guerra dell’andata, allungo il tragitto verso nord, ma guidando su strade asfaltate, meglio non giocarci gli ammortizzatori a questo punto del viaggio. Sbuchiamo dopo pochi minuti di viaggio sul mare, riabbracciando il sole che a Dettifoss in modo ingrato ci aveva abbandonato. Il tepore dei raggi, anche se è sera, regala sempre quel buonumore che il grigiore sembra risucchiare via. Grandi prati di erba alta si lasciano pettinare dal vento insistente che scende dal Polo. Sullo sfondo un mare che così blu lo ricordavo solamente in Grecia, meraviglioso. Attraversiamo Husavik, piccolo centro famoso per le escursioni al circolo polare artico, che lambisce un’isola a nord, e per le escursioni in barca alla ricerca di qualche cetaceo. Stiamo viaggiando ormai da parecchi giorni, ma appena si cambia strada sembra di voltare pagina in termini di clima, colori e paesaggio. L’Islanda è un Paese realmente camaleontico che regala spesso momenti di benefica solitudine, ciò che fortunatamente cerco.
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giotto |
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