Ultima colazione a Page, tra poco si riparte dopo ben tre notti di sosta. Forse ce ne volevano di più, anzi senza forse. Avrei voluto raggiungere Romana Mesa e Toroweap, chissà che in futuro non li faccia con Pier. Tra una fetta di pane e l’altra controllo che tutte le memory card siano ben archiviate nell’Ipod; ho talmente tanto materiale che ci vorranno mesi per organizzare tutto. Lasciamo i colori ancora tenui del Lake Powell, oggi ci aspetta una baita sul north rim del Grand Canyon National Park. Già il nome incute una certa riverenza, probabilmente ben radicato nel nostro immaginario. Ho però scelto di visitare il lato nord, meno affollato, più panoramico e molto poco accessibile rispetto al south rim. Il lato sud l’ho visitato già in altre tre occasioni, ma ogni volta che ti si apre davanti il canyon resti impietrito come fosse la prima. Ad essere sincero il Grand Canyon è uno spettacolo da brividi, ma è freddo; freddo perché purtroppo ti limiti a contemplare la grandiosità della natura, senza però poterci interagire. L’unico modo è lanciarsi in trail lunghi e massacranti, soprattutto con le temperature estive; ma arrivare a toccare con mano il fiume Colorado e magari alloggiare una notte nello sperduto Phantom Ranch deve rendere tutt’uno il visitatore con il parco del Grand Canyon. Ecco, se dovessi tornare nel south west in futuro, visiterei volentieri un paio di location a Page, ma soprattutto scenderei a valle nel Grand Canyon con l’aggiunta dell’escursione ad Havasupai. Massacrante, ma che emozioni si vivrebbero! Rabbocchiamo l’auto di carburante viveri e valige e rifacciamo a ritroso la US89 in direzione Bitter Springs, “caotica” cittadina che da una parte rimanda a Flagstaff mentre a nord ci proietta nelle Vermillion Cliffs. Proprio questa seconda via è la nostra. La strada è meravigliosa, solitaria come piace a me e soprattutto ricca di tutte quelle gobbette che fanno assomigliare l’asfalto ad una sciarpa lasciata cadere sopra delle dune. Intrigante! Prima piccola sosta, Marble Canyon; ovvero quello che può fare un corso d’acqua che scorre per millenni sopra un altipiano. La strada infatti lascia improvvisamente il posto ad un ponte che congiunge due stretti lembi di terra; impressionante quanto l’acqua possa incidere la nuda roccia. Una breve passeggiata sul ponte mette in evidenza il salto fino al fiume, vertiginoso. Sul bordo del ponte, che idealmente segna l’inizio del Grand Canyon National Park, ci sono tante piccole bancarelle di nativi, una costante in tutta l’Arizona. Anziane indiane sonnecchiano all’ombra di tende, figure meravigliose sia per i loro tradizionali abbigliamenti colorati, sia per come rifuggano ogni forma di stress; da ammirare e per alcune cose da imitare. Riprendiamo il cammino, arrivando idealmente a lambire sulla nostra destra tutta la cordigliera delle Vermillion Cliffs, oggi più rossastre del solito. La strada si perde a vista d’occhio, come in quelle classiche foto dove sembra dirigere diretta in cielo; incrociamo in questo tratto di Arizona veramente pochi veicoli, permettendoci di fermare la macchina ovunque io abbia voglia di rubare qualche immagine. Sostiamo in un historic marker, cioè piazzole che ricordano qualche evento storica degli States, mentre sopra di noi volteggiano alcuni condor; nelle vicinanze dovrebbe esserci un centro per il recupero e cura di questo volatile tanto bistrattato in passato ed ora in via d’estinzione.
Intanto i lunghi rettilinei che sembravano voler forare il cielo finiscono; una serie di ripidi tornanti ci fanno abbandonare alle nostre spalle le Vermillion Cliffs e in poche miglia ci proiettano in mezzo alla Kaibab National Forest. E’ impressionante come negli States in poca distanza i paesaggi e i climi mutino radicalmente, come se ci trovassimo in un teatro e assistessimo al cambio di scena. Jacob Lake, assomigliante di più ad una piccola località del Montana anziché dell’Arizona, rappresenta l’ultimo paesino prima del north rim. Impunemente penso che siamo quasi arrivati, senza accorgermi che il navigatore impietoso segna un meno ottanta km; per di più questa è l’unica via e quindi la più veloce per raggiungere questo ramo del parco. Ora capisco perché è così esclusivo e riservato. La strada assomiglia molto a quella che porta all’imbocco ovest dello Yosemite National Park; si ondeggia in mezzo al bosco e a verdi vallate senza però alcuna speranza di intravedere qualche canyon, rimanendo in un paesaggio totalmente ovattato. Nel frattempo mi accorgo di come stiamo salendo in quota; il navigatore indica ben 2500 metri sopra il livello del mare. A dire il vero, a parte Phoenix che orbitava intorno ai 600 metri, il viaggio fino ad ora staziona sempre sopra i 1500 metri; la Babi voleva andare in montagna, più di così cosa vuole? In lontananza scorgiamo il solitario cabinotto del ranger; un arzillo vecchietto ci accoglie e chiedendoci da dove proveniamo ci confida che non aveva mai incontrato tanti italiani in questa sezione del parco. E io che fino a pochi secondi fa mi pavoneggiavo di essere uno dei pochi del “bel paese” ad andare nella sezione nord del Grand Canyon. Il bello dei parchi americani è che molte volte, quando si passa la barriera d’ingresso, si festeggia per essere arrivati; tutte illusioni! Ancora mezz’ora di viaggio praticamente a passo d’uomo prima di arrivare al village del parco. Ma che meraviglia le strutture adibite per i turisti; tutto il bosco è costellato di piccole baite usate come alloggi; al centro si erge un edificio, tutto in legno, che da solo vale una visita nel parco. La sua hall ha un soffitto altissimo, con un arredamento tutto in stile “old american” che crea un’atmosfera magica; le stesse luci al suo interno sono ricavate da vecchie lanterne da pionieri. Pochi passi e si apre una sala arredata di tante poltrone e divani in pelle, fatta solo di vetri e orientata sullo strapiombo del canyon. Al centro un vecchio immenso lampadario che sembra proiettare i visitatori indietro di un secolo; davvero eccezionale! La restante porzione del resort è adibita a ristorante, ricavata in una sala immensa simile a quelle viste nei film di Harry Potter; totalmente orlata di grandi vetrate che lasciano vedere lo spettacolo del Grand Canyon è illuminata in modo molto velato da immensi lampadari antichi. Non poteva presentarsi meglio il north rim. Lasciamo tutti i bagagli velocemente in camera, abbiamo solo una giornata da spendere qui. Intanto il tempo fuori è più che variabile, alternando in modo repentino nuvole minacciose a squarci di sole. La temperatura è frizzante, i bermuda in pieno giorno sono meglio accompagnati da una felpa. Ci tuffiamo subito sui pochi vistapoint antistanti il bordo del canyon; uno spettacolo mozzafiato affacciarsi sull’infinito del Grand Canyon. Decidiamo però che fare qualche foto statica ci sta un po’ stretto; pochi km di auto e imbocchiamo il Ken Patrick Trail un tracciato che corre dentro al bosco e ogni tanto lascia intravedere le profonde gole del parco, con l’obiettivo di agganciare l’Uncle Jim Trail; nel frattempo il sole ha perso ogni speranza di aprire varchi nelle pesanti nubi. La razionalità della Babi mi convince a fare retromarcia e tornare alla volta dell’albergo, i tuoni si fanno sempre più vicini e il silenzio degli uccellini nel bosco già anticipano qualche scroscio d’acqua. Peccato, l’unico trail interessante del north rim (se si esclude ovviamente la discesa al fiume Colorado) è saltato; a questo punto l’unica speranza è che entro serata il tempo migliori. Giusto appena tornati al lodge e si aprono le cataratte; un nubifragio, peraltro assai frequente a quest’ora del pomeriggio e in questa parte di Arizona, ci rintana tutti nella sala fatta di vetrate a strapiombo sul canyon.
Tutti raccolti sopra i divani in pelle ammiriamo stupidi e sbigottiti il passaggio del temporale nel parco, il tutto accompagnato da fulmini che cadono ovunque e da nuvole che transitano quasi sotto di noi. Il lodge è situato infatti a oltre duemila e cinquecento metri di altezza, giusto per dare l’idea di quanto ci sentiamo piccoli “eremiti” quassù. Mentre il pomeriggio comincia a lasciare la scena alla sera i turisti “mordi e fuggi” cominciano ad abbandonare il lodge accompagnati da una fitta pioggia, probabilmente alla ricerca di un alloggio fuori dal parco, già tutto “sold out” da settimane. Rimaniamo assieme agli altri ospiti dell’hotel accovacciati ad ammirare con gli occhi sgranati lo spettacolo violento che si profila all’esterno. Tutto un susseguirsi di bagliori e tuoni, con i ranger che nel frattempo vietano a chiunque di uscire dalla struttura; il pericolo di rimanere folgorati è altissima. Quando ormai la speranza di qualche spiraglio di bel tempo stava per svanire ecco che il sole comincia a illuminare, attraverso qualche squarcio nella foschia, le cime del Grand Canyon. Lentamente il sereno torna a fare capolino sul nostro rim, permettendo che il tramonto porti con se tutti i suoi colori caldi. Ci riversiamo frettolosamente all’esterno; lo scenario è impareggiabile. Piccole nuvole si increspano attorno alle cime della mesa creando effetti altamente fotogenici. Scatto qualche foto, ma come posso congelare la profondità, la maestosità e il profumo di questo panorama? E’ umanamente impossibile; e allora mi fermo al Bright Angel Point pietrificato da tanta magnificenza e di colpo mi sento tanto piccolo. E’ ormai sera tarda e ci aspetta il nostro tavolo al ristorante del lodge; la temperatura fuori è rigida già in pieno agosto. Comincio a capire perché il north rim rimanga aperto da giugno fino a metà settembre; leggendo sulle guide sapevo che l’inverno qua è con la “i” maiuscola. Ci accomodiamo a tavola e ci accorgiamo di come si riesca a vedere in modo nitido, attraverso le vetrate, la sottile striscia di luci che identifica il south rim. Chissà cosa pensano nel loro lato più affollato di noi; vedranno un paio di luci sospese nel buio, nulla di più. Molto suggestivo. La cena scivola via in modo molto piacevole; la cucina è davvero notevole, accompagnata da un servizio eccellente e da un’ottima scelta di vini californiani. Sanno davvero come coccolare i clienti al north rim, nulla da dire. In modo molto presuntuoso vorrei fare qualche foto sul bordo, ma mi accorgo che in assenza di luna il buio quassù abbia un colore così scuro che non avevo mai sperimentato. Faccio fatica a vedere dove metto i piedi, pazzesco. Meglio evitare di trovarmi a chiedere aiuto dal fondo di qualche scarpata. Ma lo spettacolo più bello è quando rivolgo lo sguardo al cielo; non si può parlare di “stellata” notturna, troppo riduttivo. Tutta la volta celeste è cosparsa di punti luce che pulsano in modo quasi imbarazzante; non si può nemmeno parlare di “individuare” la via lattea, visto che è lì, spalmata sopra di noi. Il Grand Canyon è uno di quei luoghi che da soli valgono un viaggio nella lontana America. Un breve giro all’unico general store del villaggio (ma veramente ben fornito e accogliente), giusto per ingannare la serata, e ci fiondiamo a letto; la giornata è stata lunga e le troppe emozioni stancano sempre. Se si vive in città come me, pensare di potersi svegliare nel Grand Canyon al canto quasi “assordante” di uccellini, uscire dalla baita e per prima cosa incrociare un paio di scoiattoli… mi permetto di dire che sembra di vivere in un libro di fiabe. La colazione viene servita nella stessa sala della cena, adesso però completamente allagata dalla luce bassa del sole. Anche in questo caso servizio e qualità sopra le righe rispetto alla media degli alloggi che ho visitato in Usa; forse potrei paragonarlo come atmosfera e qualità allo Zion Lodge. Lasciamo davvero a malincuore la tranquillità e la bellezza del Gran Canyon Lodge, cercando di anticipare i (pochi) pullman che scaricheranno orde di turisti nel north rim. Abbandoniamo il Kaibab Plateau e in auto, attraverso il Fuller Canyon, dirigiamo verso i vistapoint, sempre del north rim, situati nel Walhalla Plateau. E’ un tipico percorso di montagna il tragitto di avvicinamento, con annessi tornanti e boschi infiniti. Anche oggi direi che l’aria è frizzante; è curioso notare come in questo viaggio stia passando continuamente da un microclima all’altro: chissà come sarà felice il mio fisico! Il lato est del north rim è tutto un susseguirsi di vistapoint mozzafiato; si comincia con Point Imperial, il più a nord, poi nell’ordine Vista Encantada, Roosevelt Point fino ai più belli Cape Royal e Walhalla Overlook. Da qui è addirittura possibile intravedere sul south rim la watchtower di Desert View, o quanto meno credo di vedere. Lungo il tragitto facciamo dei brevissimi trails, tutti pavimentati, che ci portano ad ammirare Angel Arch, Mount Hayden oppure ad avere una visuale rovesciata rispetto al south rim su cime quali Wotans Throne o Vishnu Temple. In definitiva è una mattina dedicata ad ammirare paesaggi di incommensurabile bellezza, ma che lasciano però l’amaro in bocca. Perché come tutte le cose belle, prima le osservi e poi vorresti anche toccare. Il Grand Canyon questo non sempre lo permette; è una cosa che mi manca la discesa nei suoi canyon, sia che si parta da north attraverso il North Kaibab Trail sia che si inizi da south con il Bright Angel Trail. Pensare di trascorrere una notte nel fondo del Grand Canyon, dormendo nel Phantom Ranch (già il nome è tutto un programma!) sentendo solo il rumore del Colorado che scorre… questa è un’esperienza che lascia una traccia indelebile. Passare in rassegna i vistapoint è come lasciare soffrire un bambino davanti alla vetrina di un negozio di dolci. Com’è successo per Romana Mesavuole dire che in un futuroviaggio nel south west inserirò obbligatoriamente una discesa a fondo valle e una alle cascate di Havasupai. Senza accorgercene la mattinata è volata, occorre fare retromarcia, si torna nello Utah con obiettivo Kanab. Spero che la serata sia limpida, voglio proprio vedere la sabbia rossa di Coral Pink Sand Dunes State Park incendiarsi sotto i raggi del tramonto.
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giotto |
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