Se dovessi identificare la mia colazione in un'immagine, oserei pensare che il mio destino odierno sia di vagare in un luogo sperduto e senza viveri. A dire il vero è che l’aria frizzante del Paese unita a colazioni sempre molto sontuose risvegliano in me una fame atavica stile hobbit. Abbandoniamo il minuscolo paese di Hella percorrendo sempre la strada ad ‘anello’ che cinge per intero l’Islanda. All’orizzonte le nubi sono nere e contorte, come se volessero prevalere l’una con l’altra; al contrario sulla costa il sole splende esaltando i verdi prati disseminati ovunque. Più si viaggia verso sud e maggiore è la temperatura esterna, forse per un gioco di influssi di correnti marine o perturbazioni provenienti dal continente; ma questo accentua anche la presenza di nebbia ed eventuali temporali, generati dal freddo dei ghiacciai che poco a poco si vedono alla nostra sinistra. Poca strada di viaggio e accosto in un piccolo spiazzo fatto di sabbia nerissima; sullo sfondo il vulcano che ha paralizzato l’intero pianeta. Che onore, ma anche che suggestione vederlo dal vivo. Al momento si è sopito, all’improvviso, un po’ come aveva cominciato le danze; ma comunque il ghiacciaio che lo ricopriva è quasi del tutto svanito, lasciando solo qualche piccolo fazzoletto residuo di neve perenne. Sopra invece si vedono ancora gli effetti dell’anidride carbonica che esce invisibile dalla sua bocca. Nuvole a spirale dai toni grigi e neri mutano forma con sorprendente velocità; sullo sfondo il vento insistente della costa agita tonnellate di cenere che senza meta si posano ovunque. Anche la terra da dove guardo in questo momento è velata di una sottilissima polvere grigia. Ora capisco cosa intendeva l’inserviente del noleggio auto quando mi chiedeva se volevo assicurare il veicolo anche per danni provocati da cenere. Il paesaggio sembra uscito dal mouse impazzito di un grafico, ma è tutto vero anche se irreale. Riparto, ma mi rifermo una dozzina di volte per meglio incorniciare uno scenario che non ho mai lontanamente visto in nessuno dei miei viaggi.
L’Eyjafjallajokull è impossibile da evitare, allungandosi come un dinosauro sonnecchiante fino alla costa; la strada “1” gli corre proprio alla base. Svoltiamo verso l’interno, giusto poche centinaia di metri e la prima meraviglia della giornata appare a noi in tutta la sua bellezza: la cascata di Seljalandsfoss. Tra le più suggestive di tutta Islanda cade da un altipiano, con il vento che ne cambia l’angolo di caduta continuamente. Qualche pulmino affolla il piccolo parcheggio antistante, ma nessuna folla oceanica. In Islanda tutto è sempre molto raccolto, discreto; questo permette di entrare in contatto con la natura senza obblighi di tempo o di fila. Qualche squarcio nei bassi nuvoloni neri evidenzia il blu cobalto del cielo; i contrasti, come nel Landmalaugar, sono sempre molto netti. Un arcobaleno si libra tra i flutti aggiungendo altre tonalità al verde psichedelico dei muschi e del prato, un dipinto è quello che stiamo osservando. La caratteristica di questa cascata è che ci si può passare sotto, o meglio, ci si può, attraverso alcune scalette scivolose, camminare dietro. L’effetto di vedere il mondo circostante dietro ad un grande velo bianco e grigio della cascata lascia basiti. Come due novelli palombari, perché sigillati dentro due cerate, ci lanciamo in una breve ma assai scivolosa scalata del versante interno della cascata; arrivano spruzzi ovunque, meglio che riponga in sicurezza l’attrezzatura fotografica. Ma una volta giunti nella grande nicchia fatta di muschi verdi, gialli e arancio, ogni foto assume un valore unico. Riprendiamo la strada verso est, zuppi e infangati. Una piccola deviazione verso sud ci potrebbe portare all’isola di Vestmannaey, ma mi accorgo dagli appunti che sono fuori tempo per il traghetto; poco male, anche perché il mare già in lontananza sembra davvero agitato.
Decidiamo di fare rotta sulla seconda tappa di giornata, le cascate di Skogarfoss; in verità la distanza dalle prime è minima, ma comunque il paesaggio in così poco tempo muta radicalmente. Non più vallate e pianure senza fine, ma un altipiano frastagliato che in alcuni punti sembra voler sfiorare l’auto e la strada principale. Mai visto tanto verde in vita mia; e pensare che credevo di visitare un Paese scenograficamente inospitale, rude e con colori che variassero dal nero al marrone; beata mia ignoranza. Nuvole basse incagliate nelle highland, piccole cascate ad ogni fenditura nella roccia, greggi di pecore libere di arrampicarsi negli alti pascoli; è un paesaggio incantato e parecchio fiabesco. Ora riesco a vedere ciò che impressionò Tolkien nella stesura del Signore degli Anelli, ma eccoci arrivati. Dalla strada una cascata massiccia, incastonata in fondo ad una profonda rientranza dell’altipiano, si apre davanti ai nostri occhi. Magnifica, non ho altri termini per descriverla. Fortuna vuole che un carico di turisti la stia giusto abbandonando, lasciandomi campo libero per godermi questo gioiello. Piccoli specchi d’acqua, enfatizzati dalle nere sabbie vulcaniche, amplificano la profondità del salto d’acqua. Un boato è l’unico rumore che cinge la stretta vallata, mentre due colori, il verde e il nero, lottano per prevalere l’un l’altro. Una ripida scalinata in metallo porta a progressivi vista point, fino alla sommità. In vetta la visuale della cascata è minima, ma vedere tanta acqua cadere mi ricorda lontanamente Niagara. Una piccola scala permette di scavalcare un basso recinto; ovviamente vado avanti. Poche decine di metri e delle minute rapide incorniciano il leggero declivio in cima all’highland. Avrei voglia di proseguire nella camminata, ma qui i percorsi sono infiniti e solo il tempo e la voglia sono gli unici freni. Dall’alto si apprezzano i temibili ‘sandur’, ovvero un mare di sabbia nera che s’interpone tra il mare e la strada; un’area larga anche km dove residui lavici si sono mischiati alle acque gelide dei ghiacciai che in estate si sciolgono, generando un terreno quasi impenetrabile. In lontananza la nostra ultima meta della giornata, le alte scogliere di Vik, con l’inconfondibile arco di roccia in mezzo al mare.
Una volta scesi a terra ci rifugiamo nell’unica tavola calda, dove ovviamente ci servono la ‘soup of the day’. Per uno che odia i minestroni, direi che questo viaggio rappresenta un vero momento di rieducazione alimentare; onestamente sono buone queste zuppe e con l’aria gelida una minestra calda e leggera è ciò che davvero serve. Riprendiamo la nostra piccola Toyota e ci spingiamo a sud, fin sulla costa. Attraversiamo un paio di ponti che, con il disgelo arrivato ormai al termine, rasentano le acque dei fiumi; acque color azzurro e verde turchese, il che mi fa venir freddo al solo pensiero. All’altezza della strada 218, cerchiamo di raggiungere le scogliere di basalto di Dyrholavegur; per una volta non siamo soli, preceduti da un paio di camper. Se ce la fanno loro a percorrere questo terreno, che onestamente sembra stato bersagliato da meteoriti pochi minuti prima, non posso non farcela io, o almeno è quello che spero. Proseguiamo a zig zag quasi come fossi in un videogame, ma in una decina di minuti raggiungo un parcheggio. Un’alta scogliera fatta di rocce basaltiche, scure come la pece, ci separa da una piccola spiaggia; scendiamo sulla spiaggia scura, ma soleggiata come non mai. Il tempo è eccezionale e ci permette di rimanere in maniche corte; il meteo in Islanda è davvero un mistero, visto che fino a poche ore prima ammiravamo infreddoliti splendidi salti d’acqua e ora vediamo molti islandesi prendere il sole appoggiati alle calde rocce. In vicinanza, sulla nostra destra il coreografico arco di pietra che si stagliava in mezzo al mare quando lo osservavo dalla sommità di Skogarfoss. Che luce strana c’è in Islanda, inonda tutto e brilla in modo quasi accecante. Saliamo sul punto più alto di Dyrholavegur, un panorama da togliere il fiato. Alle nostre spalle un grande ghiacciaio luccica come cristallo, mentre alla nostra sinistra le ‘dita’ di roccia affiorano minacciose dal mare perennemente in tempesta. Un grande lembo di sabbia nera ci separa dall’altro lato della baia; in pochi minuti di auto mi trovo ad avere una visuale del promontorio di Vik totalmente ribaltato. Sopra di noi ora volteggiano le pulcinelle di mare, ma sono troppo alte per apprezzarne i colori, mentre le dita rocciose sono a poche decine di metri, in mezzo al mare. Le onde s’infrangono senza sosta contro un’alta prua basaltica che sembra puntare diretta in cielo. E’ stata un’altra giornata davvero emozionante e piena, fatta di scenari di volta in volta differenti, ma sempre uniti tra loro da una liason di purezza, caratteristica presente ovunque in questa strana terra. Ricominciamo a disegnare tornanti con la nostra piccola vettura, l’albergo è sito in un paese dal nome quasi impronunciabile - Kirkjubaej arklaustur, ma che domani ci agevolerà nell’ esplorazione del parco di Skaftafell ai piedi del ghiacciaio di Vatnajokull.
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giotto |
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