Namibia è sinonimo di distanze immense, non tanto come km, ma come tempi di percorrenza; ecco perché già al mattino presto tutti i lodge sembrano spesso in piena fase di evacuazione. Il sole è infatti ancora dietro le colline quando ci mettiamo in marcia; oggi si viaggia verso una terra tanto selvaggia quanto sconosciuta, il Damaraland. Non ho passato una gran nottata, il freddo e il vento di ieri mi hanno messo quasi K.O., ma dobbiamo raggiungere l’area di Twyfelfontein entro fine mattino in modo da poter poi effettuare un paio di escursioni. Mi metto alla guida ripercorrendo verso sud una parte della strada già guidata ieri, ma già ad Henties Bay mi lancio verso l’interno, e come sempre ci chiediamo dove finiremo. La strada invece non è male, per essere sterrata; un’immensa carreggiata che corre fino all’orizzonte tutta trapuntata di ghiaia e terra, ma comunque ben battuta. Il paesaggio all’inizio è abbastanza anonimo, ma poi due massicci sembrano alzarsi dalla foschia; alla nostra sinistra il complesso del Brandberg, famoso per ospitare alcune delle pitture rupestri più antiche al mondo; alla nostra destra lo Spitzkoppe, delle irte colline che sembrano puntare dritte al cielo da quanto sono appuntite. Il traffico è ovviamene quasi inesistente, giusto un paio di camper e qualche camion per la manutenzione della strada, il che è tutto dire. All’improvviso una tormenta di ghiaia e polvere investe tutta la carreggiata, travolgendoci e obbligandoci a navigare con gli occhi bendati. Si riescono ad intravedere solo spicchi di cielo azzurro sopra di noi, mentre ai lati potenti mulinelli alzano di tutto sballottandoci durante la guida. E’ un paesaggio indescrivibile; questa foschia unita alle folate che sembrano volerci scaraventare non so dove, fanno sembrare questa terra come l’anticamera di un altro pianeta. Poi, come improvvisamente eravamo state vittime di una tormenta, d’incanto tutto svanisce. Nello specchietto retrovisore continuo a vedere il muro grigio della polvere che nitidamente si sposta da un lato all’altro della strada; non oso immaginare cosa stiano provando quei due camper che prima mi seguivano.
Pochi minuti e raggiungiamo Uis, dove mi fermo a fare un po’ di carburante. Il tempo di scendere dall’auto e un paio di ragazzi iniziano a trattare la vendita di pietre di chiara origine lavica; veramente molto belle, decidiamo di prenderle anche se i prezzi sono più europei che namibiani. Decido di mollare il volante a Babi, sono ormai allo stremo delle forze; ha guidato poco in Namibia, ma non si fa spaventare da qualche sasso o da un paio di buche. Le lascio la scelta se optare per la strada più “battuta” o una scorciatoia segnataci dalla guida, ma che potrebbe avere il fondo più insidioso; non avevo dubbi che avrebbe scelto il secondo. In realtà si rivela un bellissimo diversivo in mezzo a villaggi rurali, dove tutti si sbracciano a salutarci; chi intento a lavorare nei campi, chi invece alla guida di un carretto trainato da qualche asinello. Ma sorridono sempre questi namibiani? Un paio di svolte e circumnavighiamo il Brandberg, massiccio e minaccioso con le sue rocce tutte frastagliate; ma ora lo scenario che si rivela d’innanzi a noi è davvero notevole, degno del Damaraland e della sua fama di luogo più bello di Namibia. Sembra d’essere nel sudovest degli Stati Uniti d’America, ma con formazioni rocciose più basse e marcate. I colori variano dal rosso accesso al nero di alcune tipologie di rocce; questi colori risaltano ancora di più con il bush giallo che ricopre interamente il suolo, mentre grandi acacie verdi spezzano continuamente la linea dell’orizzonte. Grandi mese con pareti verticali fanno da nido ad immensi rapaci che volteggiano un po’ ovunque. Devo dire che a parte gli animali di terra, sono rimasto sorpreso dall’incalcolabile numero di volatili presenti in Namibia; stormi e stormi di ogni tipo di uccello. Il percorso stradale è comunque sempre ben indicato, e una volta imboccato il sentiero contraddistinto dal numero giusto è quasi impossibile perdersi, dato il basso numero di svincoli o deviazioni; e infatti in poco tempo scorgiamo, adagiato contro la parete rocciosa di una collina, il complesso del Twyfelfontein. Un insieme di pagode in paglia con al centro una struttura imponente, ma non invasiva o tale che deturpi il paesaggio; è un resort più turistico rispetto a quelli fino ad ora visitati. Infatti un pullman nel parcheggio fa prevedere che non saremo soli. La struttura offre un paio di tour interessanti, ma soprattutto questo resort è costruito adiacente le antiche rovine di Twyfelfontein, il che ci risparmia parecchio tempo per campi. Il tempo di prenotare il tour serale alla ricerca degli elefanti del deserto e mi fiondo in camera; un paio d’ore di sonno spero mi rimettano in sesto. Detto fatto, riacquisto un po’ di forze e il mal di testa svanisce; ottimo, sono pronto per il tour.
Fuori al lodge la temperatura è impressionante, saranno almeno 50 gradi; inoltre, trovandoci appoggiati con il resort contro la parete della collina, mi sembra di essere in cottura sulla pietra lavica. E’ talmente e troppo caldo che non si riesce neppure a svenire. Il lato positivo di alloggiare in una struttura più turistica, è che i budget dei “turisti” il più delle volte è risicato; ecco allora che ci troviamo nuovamente soli con la guida a bordo di un incrocio tra una jeep e un camion militare, ovviamente tutto scoperto, a spasso per le praterie del Damaraland. Guadiamo un paio di letti secchi di fiumi, quando intravediamo delle orme immense nella sabbia; la guida, come fosse un segugio, comincia a risalire lentamente il fiume. Se saremo fortunati dovremmo avvistare i solitari e ormai pochi elefanti del deserto, o quanto meno le femmine visto che i maschi vivono a parte e sono soliti migrare lontano fuori dal periodo di accoppiamento. Lungo il tragitto c’imbattiamo in qualche springbok, nascosto fino al collo nel bush, ma soprattutto siamo costantemente seguiti da un paio di aquile che volteggiano speranzose sopra di noi. La fortuna anche oggi ci assiste; poco dietro la collina un gruppo di una dozzina di elefantesse, caratterizzate dalla forma tonda della fronte, è incolonnata assieme a qualche cucciolo. La guida ci spiega con dovizia di particolari le abitudini e il modo di approcciare gli elefanti, animali docili finché non percepiscono un pericolo per i loro piccoli; a quel punto resta solo da pregare data la loro mole; il nostro accompagnatore, un uomo bianco sulla sessantina con una barba bianca che lo accomuna più a una figura natalizia invece che ad un ranger, si emoziona ad ogni passo dei pachidermi; e credo che li veda ogni giorno. Mi accorgo come la natura e gli animali trasmettano valori che il nostro ipercivilizzato mondo occidentale non possiede più: la semplicità, la spontaneità e la normalità. Gli stessi elefanti, distanti una decina di metri da noi, sembrano riconoscerlo e non assumono un atteggiamento ostile; capiscono che sono al sicuro, come lo è il piccolo “Dumbo” di neppure due settimane che prova ad allungare la sua piccola proboscide verso un ramo. Il bello di questa razza di elefanti è che non rovinano la vegetazione circostante – i.e. sradicare rami e arbusti – ma si limitano a mangiare, un po’ come le giraffe, direttamente dalle fronde. La cosa assurda è che ci troviamo in piedi in mezzo alla savana africana, a pochi metri da una dozzina di elefanti, ma non si percepisce alcun pericolo; quando si dice che viaggiare nel continente nero è un po’ come rivivere una vita precedente, sopita dentro di noi, è tutto vero. Passerei altre ore ad ammirare questa carovana di animali che lentamente ogni giorno effettua la transumanza all’interno della vallata, ma la nostra guida è ansiosa di portarci a visitare un paio di spot degni del Damaraland.
Qualche minuto di fuoristrada e ci ritroviamo d’innanzi ad una parete, ben celata in fondo ad una piccola scarpata, fatta di tante stele di durissima roccia chiamate Organ Pipe. Sinceramente questo nome mi ricordava un parco nel sud ovest dell’Arizona, ma il soprannome a questo fenomeno naturale è davvero appropriato. Lo scontro di due placche ha causato la compressione dei sedimenti, rendendoli granitici e forgiandoli in migliaia di cilindri di dolerite, alti anche qualche metro; questi per la pressione si sono alzati dal terreno portando a formazioni rocciose davvero bizzarre. Lo stesso, ma con misure più ragguardevoli, si può dire per tutte le alture che ci circondano; sono enormi massi striati che si ergono da una infinita pianura. Organ Pipe vale una visita se si è nei paraggi, mentre se si è a corto di tempo meglio restare ad ammirare la fauna locale. A breve distanza è possibile raggiungere un altro luogo che se visitato durante il giorno potrebbe passare inosservato, ma al tramonto assume un fascino unico: sto parlando delle Burnt Mountains, un gruppo di colline alte un centinaio di metri fatte di dolerite. Questa roccia scura e rovente, che ricopre quasi tutta Twyfelfontein, al tramonto si accende apparendo come una fornace accesa; veramente interessante. Sicuramente per un appassionato di geologia tutta la Namibia potrebbe rappresentare un’esperienza indimenticabile, per la sua ricchezza e varietà. Ci rimettiamo in marcia, siamo fuori da quasi quattro ore e il Sole sembra sempre più rapido nella discesa; anche la temperatura sta scendendo velocemente, per fortuna la giacca a vento è sempre a portata di mano. Il “nostro” ranger guida compiaciuto zigzagando tra le grandi piante di acacia indicandoci continuamente piccoli grappoli di antilopi o nidi di aquile; mi raccontava che sono parecchi anni che tutti i giorni fa lo stesso tragitto, ma ogni volta riesce a scoprire altre bellezze da questa terra. Lo invidio profondamente. Ad un tratto gli chiedo se può rallentare, è troppa la curiosità per alcuni grandi cerchi nel bush dove al loro interno non cresce nulla; la guida, alla mia richiesta, risponde spiegandomi che le cause di questi “crop circles” africani non sono spiegabili. Veramente interessante notare come nella stessa Namibia ci siano fenomeni di incerta origine, ma nessuno ne abbia mai parlato prima attraverso i mass media. Dubito quindi che la paternità possa essere attribuita a qualcuno del posto, soprattutto per il fatto che da sempre esistono in queste terre. Qualche scatto ricordo e ripartiamo con il nostro jeeppone, cercando un punto di favore sopra un alta mesa; è la classica ora del tramonto, un vero rito – sicuramente turistico – in Africa. E’ bello sorseggiare una bibita fresca ed ammirare lo spettacolo sempre nuovo del Sole che va a morire nella savana; e immancabilmente un fresco zeffiro serale coincide con l’inizio del crepuscolo. Che spettacolo.
Rientriamo al piccolo trotto nel resort scoprendo che dopo cena organizzano un mini corso di astronomia all’aperto; il cielo australe è in effetti molto diverso dal nostro e mi piacerebbe individuare la “croce del sud”, ma non ho ancora recuperato del tutto le forze e credo sia meglio riposarsi. Il mattino inizia con una sontuosa colazione, oggi mi sento davvero in forma. Meglio così, visto che si parte subito per una piccola escursione alle rovine di Twyfelfontein; una bella gita, perché veramente molto semplice, da fare a piedi a pochi passi dal resort. Un paio di antichi e abbandonati villaggi di locali fanno da sfondo all’escursione; saliamo lungo un pendio dove un babbuino per nulla amichevole urla creando echi sinistri in tutta la vallata. Sembra stia a guardia della Twyfelfontein, ovvero della “fontana incerta”, una piccola sorgente di acqua che sembra fosse già utilizzata – date le numerose pitture rupestri presenti – dalle popolazioni Damara ben 5000 anni fa. Il piccolo tour permette di ammirare queste incredibili incisioni, che il tempo ha in parte sbiadito, ma sono ancora nitide in ogni anfratto della collina. E’ una bella passeggiata, che offre inoltre splendide vedute della vallata al mattino, quando ancora il caldo non è soffocante; è poi molto interessante una formazione rocciosa di alcuni metri d’altezza che sembra raffigurare un’onda prossima ad infrangersi a terra. Purtroppo il tempo di rubare qualche scatto e ascoltare un paio di aneddoti storici e siamo già in auto alla volta della Ugab River. Proseguiamo verso nord circumnavigando il Wondergat, una misteriosa voragine la cui origine rimane ancora sconosciuta a numerosi speleologi. Facciamo rotta su Khorixas, l’ultima tappa prima di arrivare nella valle del fiume Ugab e miracolosamente ricompare l’asfalto; era da Swakopmund che mancava, ma ormai mi ero abituato e in fondo non si viaggiava così male. Oggi il tempo è soleggiato, ma una strana foschia non permette di ammirare le formazioni rocciose circostanti. In breve tempo, complice l’agilità della strada in ottime condizioni, giungiamo allo svincolo per Ugab; sono ansioso di vedere questa piccola “Monument Valley” con al centro la Vingerklip, una roccia che assomiglia ad un dito che indica il cielo. Sarebbe stato bello alloggiare nella vallata, ma i due soli lodge erano già pieni. Tagliamo in due la vallata, ma la foschia continua a sfumare le linee marcate delle alte mese; peccato davvero. Consapevoli che nessuna escursione di poche ore permetterebbe una buona visuale con questa strana nebbia invernale, decidiamo, dopo aver attraversato più volte la vallata, di fare rotta sul nostro lodge. Scopriremo poi in seguito che la scarsa visibilità era a causa di un vasto incendio che proveniva dal Caprivi, la regione più a est della Namibia. Tutta questa zona è povera di alloggi, perché troppo prossima al parco nazionale di Etosha che da solo catalizza metà regione. Siamo riusciti a prenotare per i capelli il Bambatsi Lodge, una piccola fattoria a conduzione familiare, poco fuori dalla Ugab Valley. Per raggiungerlo bisogna scollinare un paio di volte, fino a giungere al centro della proprietà; qui sembra di essere fuori dal mondo.
Mi ero rammaricato di non stare nel blasonato Vingerklip Lodge, mentre ho scoperto l’Africa continentale più vera in questa piccola guest house. I proprietari sono namibiani di chiare origine germaniche, che offrono un soggiorno non turistico, ma genuino. La casa padronale è ubicata al centro dell’immensa proprietà, proprio al confine con l’Etosha; gli unici rumori sono quelli degli orici o delle zebre che vanno ad abbeverarsi ad una pozza perennemente sotto osservazione dal nostro terrazzo. La sera mangiamo proprio rivolti alla pozza illuminata, chiacchierando del più o del meno con un’altra coppia ospite e con i padroni di casa. I titolari sono coadiuvati da alcune signore Damara, gentili e umili; ma traspare ancora questa soggezione verso l’uomo bianco, il che mi fa capire che qua non tutto ciò che luccica sia oro. Mi permetto di aiutare a rimuovere i piatti della cena, quando mi accorgo di aver fatto qualcosa che va quasi contro la natura e la routine; porgo i piatti alla domestica e questa quasi le tremano le mani nel riceverli da me. In un momento mi accorgo di come le pene sofferte dai loro avi si trasmettano anche ai figli, e ai figli dei figli; proprio i namibiani furono schiavizzati da tedeschi e inglesi durante la colonizzazione, per poi finire addirittura ad essere sottomessi dai cugini sudafricani. Un popolo costituito da una decina di etnie diverse tra loro sia per lingua che per tradizioni, ancora oggi in una specie di pace forzosa. Hanno ottenuto l’indipendenza solo nel 1990, questo fa capire come il turismo sia alla fase embrionale, ma come stia portando ricchezza e anche abbandono delle tradizioni locali. Trascorriamo una splendida serata, forse per la prima volta ci sentiamo meno turisti e più ospiti di questa meravigliosa terra.
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giotto |
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