La strada all’interno dell’Oak Creek Canyon andrebbe consigliata a tutti i malati di stress; un mix di profumi, colori e rumori che valgono più di mille parole. Ma ormai stiamo uscendo dalla vallata, la foresta comincia a diradarsi e lascia intravedere la I17 che corre trafficata e parallela a noi. Ecco Flagstaff con sullo sfondo la monumentale Humphreys Peak che dall’alto dei suoi quattro mila metri oscura quasi il vicino Sunset Crater Volcano; l’emozione è tanta, se penso che per quasi due anni ho letto le guide della Lonely Planet, della Mondadori, della Moon, di Martres, ho martellato Carlo, Daniele e Pier con le più disparate domande ed ora mi trovo con alle spalle Sedona, davanti a me Page e il Lake Powell, a sinistra il Grand Canyon e sotto la Route 66. Per un amante, anzi passionario, degli States questi sono i momenti che sogna tutta la vita. Proseguiamo veloci attraverso Flagstaff e in poco tempo raggiungiamo la piccola stazione indiana di Cameron. In definitiva stiamo parlando di un grande general store, uno dei più antichi assieme a quello di Ganado, dove i nativi locali commerciano i loro prodotti. A parte il bel ristorante, che si affaccia sul Little Colorado River, lo store lascia molto a desiderare. Mi aspettavo dai racconti qualcosa di più genuino, ma al momento di comprare il classico cappello da cowboy l’etichetta con scritto “made in china” mi ha smontato. Guardando bene, un po’ tutto ha l’etichetta con il “made in” lontano da qua; peccato, credevo che fosse un baluardo al dilagare del capitalismo sfrenato. Capisco anche che in uno store fatto per turisti occorre avere prodotti di altissima fattura, realizzati in loco, ma al tempo stesso anche oggetti di più facile commercializzazione provenienti da paesi dove la manodopera è conveniente. Il cibo è comunque buono, la sala da pranzo molto d'atmosfera e una fermata va fatta, in fondo non ci sono altre scelte da queste parti. Poche miglia dopo, invece che proseguire verso Page decidiamo di tagliare le Mesa Hopi con l’obiettivo di andare a vedere quel gioiello che è il Coal Mine Canyon. La strada è meravigliosa, fatta di badlands grige e rosse con piccoli twister di sabbia che si formano qua e là. Capisco subito che i nativi sono molto gelosi delle loro terre; infatti mentre le strade “usa” hanno sempre qualche piazzola per permettere ai visitatori di scattare delle foto nei punti più panoramici, in questa parte della Navajo Nation di luoghi dove sostare non ne ho visto mezzo. E dire che di paesaggi unici ne ho individuati a decine. Peccato, anche se poi le sensazioni di un luogo restano indelebili a chi le vive; non esiste macchina che possa immortalare tale bellezza. La strada alla Coal Mine è lunga, forse più di quello che preventivavo, ma mi permette di vedere le fattorie dei nativi e le loro piccole colture verdi in mezzo al paesaggio che sembra più marziano che americano. Corriamo veloci sulla mesa con all’orizzonte un bello storm in arrivo, speriamo che giri e non punti su di noi. Del resto, in tutta questa fetta di Stati Uniti le ore subito seguenti mezzogiorno sono le più a rischio in termini di meteo; è sempre sconsigliabile intraprendere escursioni in luoghi non attrezzati nel primo pomeriggio, onde evitare i pericolosi flash flood. Infatti il terreno, di matrice argillosa, non riesce a drenare le violenti e brevi piogge; l’acqua si incanala quindi dove può, nei dry wash (letti asciutti dei fiumi) soprattutto, spazzando tutto ciò che trova sulla strada. Purtroppo la stragrande maggioranza dei turisti non prende a cuore il reale pericolo che incombe quando all’orizzonte si addensano delle nuvole e soprattutto sottovaluta gli avvertimenti sui cartelli relativi ai “flash flood”.
Per nostra fortuna si sentono dei tuoni solo in lontananza e comunque penso che dove stiamo andando non ci sia un vero e proprio trail da percorrere. Per fortuna Pier mi ha segnato perfettamente il punto dove svoltare; infatti alla nostra sinistra si intervallano piccole fattorie ognuna con la sua entrata, ma quale sarà l’entrata con libero accesso? La Barbara comincia a fare voli pindarici con orde di fattori armati fino ai denti che ci braccano nello sterrato della Mesa Hopi. Peccato deluderla, la strada d’accesso è solo ostruita da qualche mucca oziosa che a fatica ci lascia passare. Per il resto individuiamo subito il solitario mulino a vento che individua l’area dove parcheggiare. Pochi passi e spettacolo, una piccola Bryce si apre sotto di noi con hoodoos e archi un po’ ovunque il tutto tinto di blu, rosso e grigio. Bellissimo, soprattutto perché ci siamo solo noi e qualche mucca curiosa che ci segue. Il bordo è piuttosto pericoloso, dato che è composto di ghiaia che facilmente frana nel canyon. L’atmosfera è quasi surreale: siamo in piena Mesa Hopi, a circa quaranta minuti dalla via principale; la strada attigua a noi ha un volume di traffico pressoché nullo; persino il gps sembra non avere segnale. Gli unici rumori che si sentono sono i tuoni in lontananza, il vento che si incanala nel canyon e la Barbara che impaurita vuole tornare in zone un po’ meno lunari. Ma il silenzio qui ha una musica tutta particolare, quello che sognavo di trovare durante la stesura dell’itinerario; l’assoluto nulla che ti riempie le orecchie, permettendoti di sentire la ghiaia scivolare lentamente nel baratro. Comincio a scattare foto come un tarantolato, ma cosa vuoi che raccontino quei frammenti di carta da pochi centimetri rispetto a tutte queste emozioni. Grazie Daniele, mi ha consigliato veramente bene. Una digressione di due ore dalla via principale, che da sola potrebbe essere la tappa del giorno, ma che io ho “rubato” all’interno di un trasferimento. Faccio marcia indietro e ancora più di prima mi mangio le mani per non potermi fermare ad immortalare questa porzione di Arizona assolutamente unico. Riprendiamo anche la principale US89, accompagnati alla nostra sinistra dalle Echo Cliffs, un crinale lungo, ma esile che corre parallelo e sembra dividere in modo naturale le riserve indiane dall’Arizona. Questo fino a Bitter Springs, dove il bivio ci proietta ad Antelope Pass; cominciamo ad inerpicarci sulle Echo Cliffs, apprezzando dalla sua sommità la vista che si apre sulle Vermillions Cliffs in lontananza. In quella direzione troverò tra pochi giorni Marble Canyon e poi il North Rim, ma ora voglio godermi tre giorni nel Lake Powell. Ci tuffiamo nel “cut” di Antelope Pass, un passaggio artificiale per valicare le Echo Cliffs e lentamente ridiscendiamo in attesa di arrivare a Page. L’ultima sosta della giornata, anche perché sono passate le quattro del pomeriggio è l’Horseshoe Bend sul fiume Colorado, alle porte del Lake Powell. Dalle foto viste è uno spettacolo disarmante, data la sua imponenza. Peccato averlo saltato, per ignoranza mia, nel precedente viaggio del 2002. Sinceramente non so dove si trovi, o quanto meno so che c’è una piccola piazzola a poche miglia da Page da dove poi parte un piccolo trail fino al “salto” dell’horseshoe. Procediamo piano, anche perché a parte il comprensorio del Glen Canyon all’orizzonte, sia a sinistra che a destra il terreno è assolutamente pianeggiante. Sarà la strada giusta? Passiamo il cartello che delimita i confini cittadini di Page e comincio a realizzare che l’ho già passato, ma dove?
All'improvviso un piccolo spiazzo con qualche auto sulla sinistra mi fa pensare che o è lì o l’horseshoe si è trasferito altrove. Molliamo velocemente l’auto, la sera ormai farà capolino. Un breve trail nella sabbia rossa ci porta a fare un piccolo scollinamento, mentre all’orizzonte mi sembra di intravedere delle variazioni nel paesaggio. La vegetazione circostante è fatta di piccoli cespugli, mentre il paesaggio è realmente marziano. Ma ecco che dopo pochi minuti di passeggiata davanti si apre il pavimento con uno spettacolo di rara maestosità. Qui davvero ogni foto è superflua; il fiume Colorado disegna un collo d’oca nella roccia viva, con un salto di alcune centinaia di metri. Senza parole. Talmente grande che solo un grandangolo potrebbe ambire a racchiudere tutto. Intanto una piccola (per noi quassù) imbarcazione solca le acque verdi del Colorado, probabilmente portando a spasso i turisti a caccia di qualche rapida. Ma dinnanzi a cotanta maestosità, forse equiparabile solo agli spettacoli del Grand Canyon, curiosamente notiamo sul bordo una coppia, credo di tedeschi, intenta a sposarsi. Che meraviglia dev’essere giurarsi fedeltà in una cornice simile. Con molta cautela, il terreno è roccioso ma terribilmente friabile, ci spostiamo sul bordo destro un po’ rubando le idee di alcuni fotografi nipponici accorsi per godersi i colori del tramonto. Anche solo arrampicarsi su un piccolo promontorio è un’impresa, perché sempre di roccia liscia si parla e trovare appigli per salire è sempre un’opera meticolosa. Ma la bellezza di questo piccolo angolo di Arizona mi porta in modo spontaneo a cambiare continuamente prospettiva nella ricerca di non perderne nemmeno una sfaccettatura. Curiosando tra le rocce, trovo una piccola pietra ovale, orientata sia al tramonto che all’horseshoe con sopra il nome di un uomo e la data di nascita e morte. Forse anche lui visitò questo luogo e lasciò detto che nel caso di fatalità avrebbe voluto una piccola lapide qui. Oppure è scivolato mentre la visitava? Preferisco la prima opzione, molto più romantica. Sullo sfondo i raggi del sole stanno incendiando tutto il panorama e danno davvero la parvenza di essere su Marte; la sabbia rossa riflette la luce creando un effetto luce arancione quasi abbagliante. Epico. Mi prometto che nei giorni di permanenza a Page tornerò qui, ma so benissimo che il tempo sarà troppo poco per fare solo la metà di quello che mi sono promesso. La stanchezza comincia ad affiorare, in fondo sono in piedi dalle quattro di mattina e di cose oggi ne abbiamo fatte parecchie. Ma ciò che conta è che siamo felici, perché tanta bellezza rilassa gli animi e fa vedere tutto con colori più tenui. Viaggiare è davvero l’elisir di lunga vita.
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giotto |
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